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SHINING
(THE SHINING)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 29 gennaio 1981
 
di Stanley Kubrick, con Jack Nicholson, Shelley Duvall (Stati Uniti, 1980)
 
Un ex-insegnante che desidera dedicarsi al mestiere di scrittore (Jack Nicholson) viene assunto per custodire durante i mesi invernali l'albergo Overlook, nel Colorado. Con lui, nell'immenso albergo disabitato, vanno ad installarsi la moglie (Shelley Duvall) ed il figlioletto, che sembra dotato di poteri soprannaturali: una specie di telepatia (che dà il titolo al film) che lo mette in contatto con i fantasmi che vagano sui luoghi dove dei crimini furono commessi in passato. Influenzato dallo spirito "malefico" del luogo, condizionato dalle memorie del passato, dalla propria impotenza di scrittore fallito o, più semplicemente, dalla solitudine immensa del luogo, il protagonista dà segni crescenti d'instabilità, fino al progetto di massacrare a colpi d'ascia la propria famiglia.

SHINING, ad una prima lettura, è quindi un film dell'orrore. Ma, dai tempi di 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO, ARANCIA MECCANICA e BARRY LYNDON, per limitarci alla celebre trilogia, conosciamo uno dei procedimenti di Kubrick: trasformare un ambiente fisico, materiale, in un paesaggio mentale, metafisico. Lo splendore formale del Settecento di BARRY LYNDON non era che una crosta. Sotto la perfezione dei modi s'intravedeva immediatamente l'intransigenza, la crudeltà di una mentalità e di una logica sociale.

Cosi, anche in SHINING: tutto il film è costruito per passare dalla materia allo spirito. I luoghi innanzitutto, che da vasti diventano progressivamente ristretti, concentrici. Nelle meravigliose sequenze iniziali, che sembrano riallacciarsi formalmente alle celebri sequenze finali di ODISSEA l'orizzonte vastissimo è ripreso a volo radente. Man mano che ci si avvicina all'albergo, si passa dai toni dorati della campagna autunnale a quelli della mezza montagna che precede l'inverno, per terminare in un paesaggio desolato, privo di vita e che già annuncia l'alienazione prossima. Dai corridoi immensi e sperduti dell'albergo, che Kubrick ha fatto ricostruire interamente negli studi inglesi, il film proseguirà in stanze vieppiù costrette: per terminare, al massimo della concentrazione spaziale, in un labirinto posto all'esterno, davanti all'albergo.Il tempo segue lo spazio: nella scansione delle didascalie che frazionano il racconto, si passa dai mesi alle settimane, quindi ai giorni, ed infine alle ore di una giornata. Per terminare ai minuti o ai secondi, tipici del cinema dell'orrore. Due tipi di lettura, quindi: un primo, film dell'orrore, così come BARRY LINDON era film storico o ODISSEA di fantascienza, che rinvia continuamente ad un secondo.

Del primo, SHINING contiene tutti i caratteri, per non dire convenzioni: come in ROSEMARY'S BABY di Polansky, nell' ERETICO di Boorman o nell'ESORCISTA di Friedkin c'è il tema della possessione diabolica, la reincarnazione, il patto con il diavolo, il vampirismo, il favolismo, e via dicendo. Ma i rinvii al secondo livello di lettura sono infiniti, poiché evidentemente a Kubrick interessa introdurre dei punti di interrogazione che possano turbare lo spettatore, trasformare un orrore facile e primario in un'angoscia di ben altro peso. Senza pretendere spiegazioni di significati che sicuramente nemmeno l'autore conosce, ogni spettatore è allora libero di interpretare i propri fantasmi, se non proprio spiegare quelli del protagonista.

Appare chiaro uno dei temi del film, anche perché è il medesimo di altre opere anteriori di Kubrick: quello dell'opposizione fra una cultura (la perfezione pittorica del Settecento di BARRY LYNDON; ed il desiderio di ordinare una scrittura su un foglio, di diventare scrittore, di Jack Nicholson in SHINING) e la crudeltà di una natura umana che si oppone a questo fine. Le pulsioni che spingono Nicholson verso il Male, verso una natura fondamentalmente maligna rappresentano appunto quella crudeltà, che impedisce il cammino verso uno stato di grazia, di soddisfazione al quale la nostra cultura dovrebbe condurcI. L'uomo è un animale guidato da una natura crudele e cattiva, e la civiltà che quest'uomo ha prodotto finisce con l'annientare gli sforzi dei protagonisti di ARANCIA MECCANICA o di BARRY LYNDON, ributtandoli nelle tenebre del caos. La medesima cosa succede allo scrittore fallito di SHINING. Condotto al termine del mitico labirinto, egli si ritrova confrontato con quell'elemento che lo ricollega ad una dimensione e a un destino eterno e universale, e che Kubrick ha tradotto in immagini come pochi nel cinema, il tempo.

Suo figlio, il vero elemento forte della vicenda e non solo perché dotato del potere della visione, dello "shining", saprà evitare gli ostacoli, interpretare il vero significato del labirinto. Ripercorrendo in senso inverso le proprie tracce, rimettendo i piedi nelle proprie impronte lasciate nella neve, egli saprà ripercorrere il tempo, rimontare e reinterpretare la Storia, piegarla ai fini della propria salvezza. Per Nicholson, come risulta finalmente chiaro (?) dalla meravigliosa sequenza finale, il destino è segnato da tempo (almeno dai tempi della falsa allegria degli anni Venti, nei quali egli si vede effigiato sulla fato della festa nell'albergo): preda predisposta non soltanto dei fantasmi che aleggiavano (oppure no?) nell'albergo. Ma di quella natura crudele dalla quale egli invano ha tentato di sfuggire.

I corridoi infiniti o il labirinto di SHINING sono come quelli del famoso finale di ODISSEA NELLO SPAZIO: permettono a Kubrick, come a nessun altro, d'inserire i suoi personaggi nel tempo. In una compiutezza simile ai capolavori che lo hanno preceduto? Il tempo dovrebbe averci almeno insegnato una cosa: i film di Kubrick vanno decantati.


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